Economia

Cgil contro Miteni: «Sequestro dei beni anche dei soci»

L’annuncio lo ha dato questa mattina il vertice del sindacato durante il sit- in organizzato davanti alla fabbrica trissinese: dopo la richiesta di fallimento avanzata dalla società i lavoratori ora promettono le barricate. E la magistratura vicentina che indaga sul caso intanto finisce sulla graticola dei Cinque stelle

un momento della protesta davanti ai cancelli della Miteni (foto Marco Milioni)

Un cielo plumbeo come le aspettative dei lavoratori della Miteni ha fatto da sfondo alla prima giornata di sciopero indetto da questi ultimi dopo che la nota azienda trissinese ha annunciato che chiederà il fallimento. Durante il sit-in organizzato stamani i lavoratori, che per vero avevano annunciato la mobilitazione già prima della richiesta della procedura fallimentare, hanno ricevuto il supporto della opposizione in consiglio regionale e del sindacato. Ed è da quest’ultimo, più precisamente dalla Cgil, che è partito un vero e proprio siluro verso la ditta. «Chiederemo il sequestro del patrimonio anche dei soci per garantire i risarcimenti dovuti per l’ambiente e per i lavoratori. Non lasceremo scappare chi ha precise responsabilità» fa sapere il segretario provinciale della Cgil Giampaolo Zanni.

Miteni delibera deposito istanza di fallimento

LA PROTESTA

Ormai è guerra. I lavoratori, fanno sapere i delegati della Rsu, ovvero i delegati sindacali di fabbrica, ce l’hanno messa tutta in questi anni per fare la loro parte «ma la direzione con la decisione di chiedere il fallimento ha ormai passato il segno». Queste le prime parole proferite questa mattina, sabato 27, davanti allo stabilimento: via quindi allo stato d’agitazione e agli scioperi che potrebbero succedersi dopo quello di oggi. Parole dure che fanno il paio con quelle scritte nero su bianco in una nota diffusa nel primissimo pomeriggio:

«Giunge al suo triste quanto annunciato epilogo una vicenda che definire grottesca è poco. Epilogo dovuto ad una proprietà che non ha mai investito seriamente sulla fabbrica e che ora con questa procedura vuole sottrarsi alle sue responsabilità. Noi lavoratori oltre ad avere patito una enorme contaminazione conseguente alla esposizione ai Pfas, con tutte le possibili ricadute sulla nostra salute, ora rischiamo non solo il posto di lavoro, ma pure i nostri salari, tra i quali quelli congelati dal concordato. Rispetto al quale c’è già una istanza di sblocco depositata al tribunale di Vicenza che è munita del parere favorevole del commissario giudiziale datato 6 agosto 2018. La quale istanza sembra essersi misteriosamente dispersa negli anfratti della cancelleria o degli uffici del palazzo di giustizia. Rispetto a questo ultimo aspetto chiediamo chiarezza e risposte immediate».

Così la pensano Renato Volpiana (Rsu-Cgil-Filctem) e Denis Orsato (Rsu Uil-Uiltec). I due tra l’altro puntano l’indice contro la Regione Veneto spiegando che le tante promesse fatte durante gli ultimi mesi per spingere l’azienda a cominciare un percorso condiviso fatto di investimenti e piani di sviluppo adeguati. «Dove diavolo sono finiti i buoni propositi dell’assessore al lavoro Elena Donazzan, che s’impegnò con tanto di incontro e di comunicato a coinvolgere la proprietà ovvero la multinazionale Icig? Tanto per dire la Donazzan scrisse che Icig avrebbe dovuto provvedere alla bonifica del sito, alla tutela della salute dei cittadini e al futuro occupazionale dei dipendenti. Quanto accaduto in queste ore la dice lunga sul mantenimento di quelle solenni promesse».

Su una lunghezza d’onda molto simile è il delegato di fabbrica di Cisl-Femca Federico Pellizzaro che ai taccuini di Today.it questa mattina non ha fatto sconti:

«Il futuro occupazionale ci preoccupa. Stanotte non ho chiuso occhio. Fallimento significa fallimento, ovvero chiusura. Adesso tocca alle istituzioni prendere in mano la situazione. Noi però andiamo avanti e non ci tiriamo indietro».

Un messaggio preciso che come le altre sigle della triplice viene indirizzato in primis alla Regione Veneto, ma anche al ministero dell’ambiente e soprattutto del lavoro. Il numero uno di questo dicastero tra l’altro è oggi l’onorevole Luigi Di Maio, il volto più noto del M5S che durante una manifestazione degli operai della Miteni sotto il palazzo di giustizia, da semplice parlamentare, volle incontrare gli stessi lavoratori dichiarandosi disponibile a seguire da vicino la loro vertenza.

GLI STRALI DELL’OPPOSIZIONE IN REGIONE

Non meno tenera nelle bacchettate a palazzo Balbi è stato il consigliere regionale d’opposizione Cristina Guarda (Amp). La quale in tarda mattinata ha fatto visita al sit-in degli operai spiegando di «comprendere molto bene le ragioni dello sciopero». Il consigliere che è di Lonigo e che conosce molto bene la querelle attorno alla contaminazione da derivati del fluoro, i temibili Pfas, che le autorità addebitano alla Miteni, questa mattina è stata tranchant. Ha parlato «di delusione e di fallimento delle istituzioni visto che i lavoratori della Miteni hanno cercato un dialogo con la Regione Veneto. Dialogo che è stato negato sin dall’inizio». Si tratta di una bordata ad alzo zero che riguarda non solo la giunta capitanata dal leghista Luca Zaia, ma soprattutto il referato al lavoro retto appunto dalla bassanese Donazzan.

L’AFFONDO DELLA CGIL: IL SEQUESTRO DEI BENI

Oggi però la vera novità riguarda la presa di posizione della Cgil sia a livello regionale che provinciale. Una posizione assunta durante le ore, «drammatiche» del primissimo mattino. «La nostra organizzazione - fa sapere il segretario confederale provinciale della Cgil Giampaolo Zanni - ha deciso che si muoverà a brevissimo sul piano giudiziario per chiedere il sequestro non solo dei beni della Miteni ma anche del resto della catena societaria, persone fisiche comprese, anche andando a ritroso nel tempo. Il motivo? Fare in modo che grazie all’azione della magistratura non si disperdano quelle risorse necessarie alle bonifiche ambientali e necessarie al ristoro per i danni alla salute patiti dai lavoratori. Noi non permetteremo a chi ha agito in modo scorretto si permetta di sfuggire dalle proprie responsabilità». Si tratta di parole che pesano come macigni che il segretario ha proferito questa mattina proprio durante il sit-in (in foto un momento della protesta). Ora Zanni non lo dice espressamente ma è chiaro che ora tutta la pressione del Cgil, col peso del suo apparato e dei suoi mezzi, si sposta gioco forza sulla procura della repubblica di Vicenza alla quale da anni, invano peraltro, comitati e ambientalisti chiedono il sequestro del sito e dei patrimoni necessari ad eventuali ristori.

LA SOCIETÀ CONTRO LA PROVINCIA

In questo contesto però è necessario capire il punto di vista dell’azienda. Quest’ultima in una nota diffusa ieri ha spiegato che le ultimissime incombenze impostale dalla Provincia di Vicenza (sue alcune specifiche competenze in materia ambientale) in tema di manutenzione e di verifica sul funzionamento degli impianti, incombenze definite «pretestuose», non sono finanziariamente sostenibili. Così almeno la pensa la proprietà di Miteni che fa capo ad una holding finanziaria germanico-lussemburghese il cui perimetro non è stato mai davvero chiarito nonostante l’associazione ambientalista Greenpeace in passato abbia redatto un corposo dossier con indicazioni molto puntuali che potrebbero in qualsiasi momento essere utilizzate dai magistrati: magari con lo strumento della rogatoria internazionale.

I detrattori della Miteni però sostengono che le ragioni addotte dall’azienda siano speciose: di fatto un escamotage per evitare oneri e incombenze, in primis sul piano ambientale, che per anni sarebbero state artatamente nascoste sotto il tappeto. Se in violazione o meno del codice penale chiaramente solo la magistratura lo può stabilire. Ma la prudenza della procura berica è più volte finita nel mirino dei comitati delle associazioni, di alcuni sindacalisti e anche di alcuni esponenti politici.

«COMMISSARIARE LA PROCURA»

Ed è in questo quadro che si colloca l’iniziativa di ieri del M5S. Il quale con una nutrita delegazione tra amministratori locali, consiglieri regionali e parlamentari, si è recato ieri alla procura generale presso la corte d’appello di Venezia con la consulenza giuridica dell’avvocato berico Edorardo Bortolotto. L’obiettivo? Chiedere che l’inchiesta in corso sulla Miteni sia tolta ai magistrati della città del Palladio e assegnata direttamente alla procura generale presso la corte d’appello di Venezia. Si tratta di una procedura eccezionale, una sorta di commissariamento su un caso specifico, alla quale si può fare ricorso quando si ritiene che il titolare di una inchiesta abbia mostrato gravi lacune nella gestione e nel controllo delle indagini. Detto in soldoni si tratta di una bastonata del M5S contro la procura berica la cui condotta è stata segnalata anche al Consiglio superiore della magistratura. Se poi si considera che il ministro della giustizia è Alfonso Bonafede (uno degli uomini più in vista del M5S) e che anche il Guardasigilli può avviare l’iter per provvedimenti disciplinari nei confronti delle toghe, si capisce quanto delicata sia divenuta la situazione.

BONIFICA: ASPETTO CRUCIALE

Da questo punto di vista sarà cruciale capire quali siano le incombenze sulla bonifica che gli enti preposti (Regione in primis, ma anche la procura può imporre una sua decisione in tal senso) hanno pensato per la Miteni. La pratica è ancora in divenire, ma è chiaro che più alti saranno i costi e maggiori saranno le difficoltà finanziarie che la società o la proprietà dovranno affrontare. Rimangono poi sempre valide le incombenze della legge fallimentare la quale stabilisce che chi fa fallire una società con l’obiettivo di sottrarre con l’inganno quanto dovuto ai creditori è colpevole del reato di bancarotta fraudolenta. Pertanto per avere una misura precisa dei margini concessi a tutti i protagonisti della vicenda sarebbe interessante sapere, per esempio, quali sono le ragioni tecnico- giuridiche, che hanno portato il tavolo tecnico sul caso Pfas a chiedere alla Miteni una radiografia della contaminazione del suolo (gergalmente si dice caratterizzazione) più blanda rispetto a quella inizialmente paventata. Si tratta di una materia particolarmente seria.

Non solo per una questione di costi (più è rigorosa la bonifica più il privato deve pagare): ma anche per una questione giuridica. Non ottemperare ad un ordine di bonifica è un reato. Se la bonifica è blanda obbedire all’ordine, evitando le forche caudine del codice penale è più facile. Se la bonifica imposta è colossale, perché colossale è il danno ambientale, allora è astrattamente possibile che i responsabili cerchino degli escamotage per venirne fuori. In questo caso solo la magistratura ha il potere di intervento e di sanzione.


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