Cronaca

I Pfas e le conseguenze sull'ambiente

Durante il processo Miteni l'industria insalubre di Trissino oggi fallita è stata messa nuovamente sulla graticola dalle parti civili perché in passato il meccanismo pensato a tutela dell'ecosistema sarebbe stato «inadeguato e insufficiente». In sede di dibattimento è stata cruciale la testimonianza di un ex dipendente: frattanto non si placano le polemiche sull'inquinamento del Fratta Gorzone

Pierluigi Savio ex dipendente della Miteni, uno dei testimoni chiave al processo in corso al tribunale di Vicenza (foto, Marco Milioni)

«La Miteni era a conoscenza che il proprio ciclo produttivo rilasciava Pfas nell'ambiente» ed era conoscenza «delle conseguenti problematiche di rischio sanitario, ma non ha agito in modo sufficiente e adeguato, anche in termini di prevenzione, per evitare la contaminazione della falda acquifera». È questo un aspetto che troverebbe conferma nell'udienza del cosiddetto processo Pfas svoltasi ieri in Corte d'assise al Tribunale di Vicenza: udienza che ha visto il susseguirsi delle deposizioni di alcuni ex dipendenti dell'azienda. È questa la lettura data ieri 14 ottobre dai legali di alcune società pubbliche venete che gestiscono il ciclo integrato dell'acqua e che si sono costituite parte civile al processo. Più nel dettaglio questa è la lettura degli avvocati Marco Tonellotto, Angelo Merlin e Vittore d'Acquarone che assistono Acque del Chiampo, Viacqua, Acquevenete e Acque Veronesi.

I LEGALI DEI GESTORI IDRICI
Secondo i legali, che ieri hanno diramato un breve commento scritto sono «due gli aspetti più significativi emersi in aula, dai quali si evincerebbero le responsabilità di Miteni: pur nella consapevolezza dei vertici dell'industria trissinese che le varie fasi della produzione emettevano le note sostanze alchiliche perfluorurate e polifluorurate, e che il sistema dei carboni si saturava per effetto di tutti i tipi di contaminanti oggettivamente presenti, il sistema di analisi acque, e di conseguenza di cambio dei carboni, risultava inadeguato e insufficiente a garantire l'efficienza dell'abbattimento dei Pfas». I Pfas o perforati sono i temutissimi derivati del fluoro, la contaminazione derivante dai quali, attribuita in primis alle lavorazioni della trissinese Miteni, avrebbe colpito tutto il Veneto centrale tra Veronese, Vicentino e Padovano. E c'è di più. Secondo i legali «nel contesto descritto a dibattimento dagli ex dipendenti, i Pfas non venivano neppure ricercati e, a fronte di un sistema di trattamento delle acque che dal 2005 al 2013 era sempre rimasto uguale, il cambio carboni prescindeva proprio dai Pfas e dai loro effetti».

LA NOVITÀ
La novità emersa durante il processo di ieri, del quale è tornata ad occuparsi anche la Rai, ha una certa rilevanza anche perché dalle testimonianze in aula è stato confermato come alla Miteni fossero attivi due inceneritori uno dei quali bruciava alcuni scarti di lavorazione del ciclo dei derivati del fluoro. Un processo di combustione che ha ulteriormente allarmato gli attivisti della rete ambientalista presenti tra l'uditorio.

IL J'ACCUSE
Uno sconsolato Pierluigi Savio, già responsabile dei servizio ausiliario della Miteni, fuori dall'aula ai microfoni di Rai tre ha dichiarato: «Si sapeva che cosa si lavorava, ma non si ebbe mai la certezza che queste sostanze, per gli umani fossero così inquinanti», parole precise che sono un j'accuse nei confronti dell'azienda, messa da tempo sulla graticola per non avere, tra le altre, tutelato a sufficienza la salute dei dipendenti. Su questo filone specifico infatti c'è un altro procedimento pendente: la cui richiesta di archiviazione da parte della procura berica ha scatenato le ire della Cgil.

IL NODO DI COLOGNA VENETA
Ad ogni modo al di là del processo Miteni la querelle sulla pressione ambientale del polo chimico-conciario del distretto agno-Chiampo sul comprensorio del Guà e del Fratta Gorzone sembra non finire mai. Non più tardi del 12 ottobre alcuni componenti della opposizione di centrosinistra in seno al consiglio regionale veneto avevano alzato la voce proprio sullo stato di salute del Fratta Gorzone: nel quale finisce lo scarico dei reflui di molte imprese dell'Ovest vicentino, tra le quali, prima del fallimento era attiva anche la Miteni. Lo stato di salute del Guà Fratta-Gorzone, più volte definito dalle autorità comunitarie, uno dei corsi d'acqua più inquinati d'Europa, non è una questione di lana caprina. Dalle sue acque dipende infatti una porzione rilevante delle attività agricole tra Vicentino, Veronese, Padovano e Rodigino.

IL MONITO DI GUARDA
Tanto che ieri il consigliere regionale verde Cristina Guarda è andata in sopralluogo presso l'impianto di Cologna Veneta nel Veronese dove il collettore gestito dal consorzio Arica che raccoglie i reflui industriali di Trissino, Arzignano, Montecchio Maggiore, Montorso, Montebello e Zermeghedo si getta appunto nel Fratta «annerendone inguardabilmente le acque». Guarda in loco ha potuto constatare «come il quantitativo di acqua nei corsi sia bassissimo, cosa che comporta un aumento delle concentrazioni dei contaminanti». Per Guarda la situazione «è divenuta difficilmente sostenibile» tanto che davanti alle telecamere di Vicenzatoday.it la consigliera ha chiesto «di fermare lo scarico Arica» chiudendo quindi il collettore e invitando le aziende a depurare per conto proprio i reflui.

GUARDA L'INTERVISTA ALLA CONSIGLIERA REGIONALE


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