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Così la mafia mosse i primi passi nella notte vicentina

Se il fatto fosse successo qualche anno dopo, l’inchiesta sarebbe finita sulle scrivanie dei magistrati della Direzione distrettuale antimafia e forse sarebbe stata analizzata in modo diverso

Nel 1991, anno in cui avvenne il duplice omicidio dei coniugi Fioretto in pieno centro a Vicenza, non era stata ancora costituita la Dda (Direzione distrettuale antimafia). Struttura giudiziaria che raccoglie tutti i fatti in odore di mafia e nata solo dopo le stragi di Capaci e Via D’Amelio, nel 1992. Probabilmente, se il fatto fosse successo qualche anno dopo, l’inchiesta sarebbe finita sulle scrivanie di quei magistrati e forse sarebbe stata analizzata in modo diverso.

IL DELITTO

Solo oggi, conoscendo come le organizzazioni mafiose si siano stanziate in pianta stabile nel nord del Paese, possiamo avere qualche certezza in meno che il delitto sia da relegare solo a qualche “fallimento vicentino”. 

La rivendicazione della "Falange armata"


L’eco dell’agguato e dell’esecuzione dell’avvocato e di sua moglie non passò inosservato e fece clamore ben oltre i confini della regione. Il giorno dopo, all’Ansa di Genova, arrivò una rivendicazione telefonica a nome della famigerata “Falange armata” che, con accento settentrionale, recitò così: ‘'Ribadiamo quanto abbiamo già riferito ai carabinieri di Vicenza, rivendichiamo l’uccisione dell’avvocato Fioretto in via Torretti, abbiamo già detto tutto ai carabinieri di Vicenza''. Rivendicazione subito smentita dagli inquirenti perché i carabinieri di Vicenza dissero di non aver mai ricevuto una telefonata della Falange Armata.

Ma cos’è questa fantomatica sigla? Compare nel 1990 e si può definire un’organizzazione terroristica virtuale che serve sia alle mafie che ai servizi segreti per siglare o depistare omicidi e stragi. Una rivendicazione, quella che arrivò a Genova, relegata quasi immediatamente nel fascicolo “mitomani”. Cosa che successe altre volte ai comunicati della Falange Armata, salvo scoprire successivamente che le rivendicazioni erano vere. Ultimamente è emerso che il primo omicidio firmato dall’organizzazione terroristica, quello di Umberto Mormile, fu opera dell’Ndrangheta calabrese che usò questo nome quasi come un segnale. 

Il "calabrese"

Il caso volle che l’interesse degli inquirenti, che indagarono sul duplice omicidio Fioretto, si focalizzò su un calabrese di Lamezia Terme: Massimiliano Romano, un ventiquattrenne pregiudicato per detenzione di stupefacenti e armi che risiedeva nella Bangkok d’Italia, Verona.  Un sospetto nato dalla somiglianza con l’identikit di uno dei due killer e per quella pistola trovata nei pressi dello stadio Romeo Menti, una  Molgora-Beretta modificata. Quasi un marchio della criminalità organizzata che la usava per la sua maneggevolezza e la sua leggerezza. Una pistola giocattolo messa fuorilegge nel 1989 proprio perché, con qualche modifica, poteva essere usata in modo letale.

Ma Romano non arrivò mai ad essere indagato ufficialmente dal Pm Pecori. Dei sospetti su di lui si seppe solo dopo la morte avvenuta in uno scontro con la polizia a Sommacampagna, dove uccise due agenti. Anche in quel caso si sottovalutò la grana criminale di Romano, quando fu ucciso aveva già alle spalle un periodo di arresti domiciliari concessi per la giovane età e per non avere precedenti gravi. Stava aspettando l’esecuzione di una condanna a oltre sei anni per gli stessi reati: il traffico di stupefacenti e la detenzione di armi. 


Nessun indizio, nessun sospetto che avesse qualche riscontro effettivo. Non servì neanche la taglia di quattrocento milioni di lire, messa a disposizione dal fratello dell’avvocato Fioretto, per avere informazioni su esecutori e mandanti. Tutto scivolò verso l’archiviazione. La Molgora-Beretta, la seconda Beretta trovata nel luogo del delitto, i guanti in lattice e il guanto in pelle non potevano dare nessuna certezza e nessun appiglio per aprire almeno una pista.

Solo nel 2012, grazie agli esami del DNA, il Pm Pecori poté riaprire le indagini dopo che la Squadra Mobile di Vicenza riesumò dagli scatoloni impolverati quel guanto in pelle che poteva contenere residui epiteliali invisibili all’occhio umano. Purtroppo non servì a niente ed escluse in modo definitivo che fosse stato usato da quel Massimiliano Romano che era stato sospettato 21 anni prima. 


Cosa rimane oggi di questa vicenda?

Rimane sicuramente il fatto che i due killer non andarono per minacciare, per avvertire Fioretto. Andarono per eseguire un’esecuzione. I colpi sparati cercarono sempre organi vitali. Solo il caso incluse la moglie in questa tragedia. La sua morte racconta di una coppia di killer abituati alla mattanza, professionisti dell’omicidio. Persone che includono il colpo finale alla testa come assicurazione al raggiungimento dell’obbiettivo. Non semplici sparatori della domenica, non tossici prezzolati, non bulli di quartiere dalla pistola facile


Rimane il fatto che ancora non si era a conoscenza dell’invasione di colletti bianchi mafiosi e criminali che stava avvenendo in Veneto. Non era solo la mafia cruenta che stava risalendo lo Stivale, era qualcosa di molto più sottile. Prova ne abbiamo proprio da un boss della ‘ndrangheta che venne mandato “a fare esperienza affaristica” a Vicenza proprio in quegli anni, gli investimenti nelle località turistiche padovane e bellunesi scoperti da un’inchiesta della Dia, ma mai realmente seguita dalle scettiche Procure venete.  Non era solo il traffico di stupefacenti che interessava alle grandi criminalità. Era investire la montagna di soldi che ne scaturiva da questi traffici a ingolosire le mafie. E gli affari si fanno con e tramite uomini. Uomini che non sempre accettano le richieste della criminalità. 


Non ci sono certezze che la coppia vicentina sia stata uccisa dalla piovra mafiosa ma serve rivedere i fatti  con le conoscenze di oggi. Per cercare di rispondere a troppi quesiti che rimangono ancora senza risposte, per imparare a leggere i misteri di ieri con gli strumenti e le conoscenze di oggi. Per verità, per giustizia.


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