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La mafia che non c'è nel delitto Fioretto

Uno dei casi vicentini più eclatanti e ancora irrisolti: cosa si cela dietro l'esecuzione della coppia di coniugi?

Sono circa le 20.30 del 25 febbraio. L’anno è il 1991. Il freddo è pungente a Vicenza, lo è stato tutto il giorno.

Quando Mafalda Begnozzi scende in tutta fretta le scale del condominio per andare a raggiungere il marito dalla parte dei garage, non indossa nemmeno una giacca o un cappotto. È preoccupata, forse ha sentito il marito arrivare con la sua nuova Alfa 164 e discutere o forse vuole avvertirlo che due uomini lo stanno cercando insistentemente e che forse è in pericolo. Non immagina che da lì a poco la sua vita si sarebbe fermata contro una pallottola calibro 7,65 di una pistola giocattolo Beretta-Molgora modificata.

Non si sa se lei vede il corpo del marito, l’avvocato Pierangelo Fioretto riverso a terra, freddato da otto colpi sparati dalla stessa mano che la ucciderà. Forse non ha neanche il tempo di disperarsi o stupirsi. I due killer che vengono dal sud, o forse da Roma, non le lasciano scampo e la colpiscono quattro volte: alla gamba, all’addome, al torace e per finire alla nuca.

Un’esecuzione, come per il marito che è stato giustiziato, qualche secondo prima, con un colpo alla tempia. Non spari normali ma soffocati dal silenziatore.

Professionismo omicida.

I due killer fuggono, probabilmente con un complice che li aspetta in macchina, e da quel momento inizia uno dei casi più misteriosi e cruenti della recente storia vicentina. Un duplice omicidio perfetto, una sentenza di morte che porta subito gli investigatori a pensare ad una tipica esecuzione per mafia. Anche se allora l’argomento era legato, erroneamente e quasi esclusivamente, alla Sicilia. Ma chi era Pierangelo Fioretto? Perché architettare un agguato così simile a quelli che si potevano leggere nelle cronache di Palermo o di Roma? 

Chi era l'avvocato Fioretto?


L’avvocato Fioretto non era solo un bravo legale, era un “principe del foro” per quanto riguardava il ramo civile e i fallimenti. Dal commissariamento del Cotorossi alla gestione legale della Mastrotto, una potenza nel campo della concia. E proprio sul rapimento del patron Mario Mastrotto, fece lui da mediatore per il rilascio con i giostrai che lo rapirono. Quando gli inquirenti, dopo il suo omicidio, misero mani tra le carte del suo ufficio trovarono decine e decine di casi spinosi che potevano essere il detonatore per una vendetta o per evitare che andasse a buon fine il suo lavoro.

Non si escluse nessuna pista in Procura.

Dal procuratore Candiani il caso passò al pubblico ministero Paolo Pecori che lo seguì per anni. E la parola mafia, a poco a poco, svanì. Forse per motivi di disabitudine a trattare le modalità omicide di Cosa Nostra in Veneto, forse per opportunismo rispetto a un tessuto sociale ed economico che non doveva essere allarmato nel sapere che il pericolo mafioso che si vedeva nei tg poteva arrivare anche nelle case dei vicentini. O forse, semplicemente, per il comportamento bizzarro dei due killer durante la mattinata di quel giorno.

Infatti, il 25 febbraio 1991, il custode del Tribunale, che allora era situato a contrà Santa Corona, si ricordò della presenza di due uomini sui trent’anni che chiedevano insistentemente se qualcuno avesse visto l’avvocato Fioretto. E lo chiesero a molti. Quasi volendo farsi notare. È in quel momento che si seppe che i due presunti killer potevano essere di Roma o comunque meridionali. Ma per quale motivo farsi notare in quel modo? Lo studio di Fioretto era a pochi passi dal Tribunale. Forse non lo conoscevano fisicamente e volevano essere sicuri di colpire successivamente la persona giusta?  O forse non erano loro i due killer e la loro presenza era solo per depistare successivamente le indagini? 

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